giovedì 5 novembre 2009

E' morto Claude Lévi-Strauss


"Riporto di seguito, brevemente ed ellitticamente, quelle tesi che più mi hanno colpito ed affascinato dell’opera del grande antropologo:
1. Innanzitutto la sua “ideologia rousseauista“. Avere ritenuto Rousseau il fondatore delle scienze umane ha avuto un’importanza straordinaria nel dibattito antropologico novecentesco e nell’avvicinare gli studi etnologici alla filosofia. Lévi-Strauss ritiene a ragione Rousseau il filosofo che ha individuato nella questione del rapporto natura/cultura uno dei nodi cruciali dell’esperienza umana. La fondazione di questo tema avviene a suo parere proprio con il Discorso sull’origine della disuguaglianza, insieme al meno noto, ma altrettanto importante, Saggio sull’origine delle lingue: per studiare l’uomo, bisogna imparare a guardare lontano; non solo: la volontà sistematica di identificazione all’altro va di pari passo con un rifiuto ostinato di identificazione a sé. Scrive a tal proposito Lévi-Strauss:
“A Rousseau dobbiamo la scoperta di questo principio, il solo su cui possano fondarsi le scienze umane, ma che doveva restare inaccessibile e incomprensibile fintantoché fosse regnata una filosofia la quale, prendendo il proprio punto di partenza nel cogito, fosse prigioniera delle pretese evidenze dell’io, e non potesse aspirare a fondare una fisica se non rinunciando a fondare una sociologia e persino una biologia: Cartesio crede di passare direttamente dall’interiorità di un uomo all’esteriorità del mondo, senza rendersi conto che fra tali due estremi si collocano le società, le civiltà, ossia i mondi degli uomini.”
Rousseau è il pensatore che ha fatto dell’esperienza dell’alterità lo snodo fondamentale della filosofia (e dunque della conoscenza): esperire l’altro – innanzitutto quell’altro che è me stesso, persino nella sua forma estrema, e cioè l’animalità – è l’elemento fondante di ogni discorso possibile sulla natura umana.
2. Il concetto di pietas, anche questo indicato da Rousseau come “facoltà” originaria che gli esseri umani condividono con gli animali e con il mondo vivente più in generale, e che individua nell’altro non solo il parente, il vicino, il compatriota (secondo una linea tipicamente etnocentrica/egocentrica), ma l’essere umano qualsiasi proprio in quanto essere umano, fino a considerare l’animale in quanto tale e ad abbracciare nel circolo del riconoscimento l’essere vivente qualsiasi in quanto essere vivente: “L’uomo comincia dunque con il sentirsi identico a tutti i suoi simili, e non dimenticherà mai questa esperienza primitiva”. La pietà è un tratto originario del vivente, scritto, potremmo dire, nel suo Dna e non può esser cancellato, pena la distruzione della vita in quanto tale – una possibilità, quest’ultima, che gli umani hanno tenacemente perseguito, e che deriva da quell’abisso che chiamiamo “libertà“. Libertà di costruire e di perfezionarsi (perfectibilé, la chiama Rousseau), ma anche di distruggere l’altro da sé e, in questo modo, se stessi.
3. Non entro nemmeno nel merito del cosiddetto “pensiero selvaggio” (e della critica dell’antinomia tra mentalità logica e mentalità magica o prelogica), ma colpiscono ne La pensée sauvage di Lévi-Strauss alcuni esempi etnologici di conoscenza indigena/primitiva. Mi limito a riportarne uno: i pigmei filippini conoscono (o conoscevano) nomi e descrizioni di 450 piante, 75 uccelli, della quasi totalità di serpenti, pesci, insetti e mammiferi del loro territorio, oltre alle 20 specie di formiche – conoscenze che condividono in buona parte con i bambini. Vogliamo organizzare una gara con gli abitanti di una qualunque città occidentale?
4. Un’altra grande lezione che ho imparato da Lévi-Strauss riguarda la concezione del “progresso“, da “relativizzare” sempre e comunque – cioè da collocare nel contesto storico-culturale e da osservare con adeguata distanza spazio-temporale. Due esempi su tutti: noi che ci crediamo così avanzati dipendiamo ancora da alcune “immense” scoperte della rivoluzione neolitica, e cioè l’agricoltura, l’allevamento, la ceramica, la tessitura… “A tutte queste ‘arti della civiltà’, da otto o diecimila anni ci siamo limitati ad arrecare solo perfezionamenti”. E quando un osservatore tra qualche migliaio di anni studierà l’altra grande rivoluzione dopo la neolitica, e cioè quella scientifica e industriale, potrebbe ritenere piuttosto futile e secondario sapere dove è cominciata, visto che in breve (una frazione di tempo secondo la prospettiva della lunga durata) ha contagiato l’intero pianeta. Oltre al fatto che potrebbe ritenere casuale che sia cominciata in Occidente piuttosto che in Oriente"
(dal blog La botte di Diogene)

Nessun commento:

Posta un commento